mercoledì 16 marzo 2011

I politici Italiani non sanno perché festeggiamo i 150 anni d' Italia



Incredibile! sto guardando una puntata delle Iene e sono rimasto davvero schioccato, perché i membri del parlamento non sanno il perché festeggiamo i 150 anni d' unità d' Italia! Qualcuno non sà neanche chi era Vittorio Emanuele 2! E cosa fanno?! Cercano scuse varie per evitare figuraccie, chi fa finta di niente, chi addirittura scappa, oppure ci sono i più sinceri che dicono tranquillamente "non lo sò" salutano e se ne vanno.
Io provo vergogna per loro perché non sanno neanche l' anno in cui Roma è diventata capitale d' Italia! C' è solo un lato positivo più in basso di così i membri del parlamento non potranno andare.


Ci vorrebbe un bel ripasso di storia , ma sicuramente ci vorrebbe anche un ritratto della faccia di Garibaldi dopo questa vicenda.

Alcune immagini dal giappone

Sono immagini davvero incredibili come se la natura si vendica su di noi per il rispetto che non abbiamo per lei


Disastro in Giappone

Terremoto Giappone 2011
 Per il professor Franco Bigatti non è una notizia come le altre, pur tremenda nella sua portata catastrofica, ma è una fitta dritta al cuore: il terremoto e lo tsunami che hanno colpito il Giappone hanno fatto scempio della terra alla quale è legato a doppio filo. Fondatore e direttore del Centro Studi Orientali di Savona, da una vita a contatto con diplomatici e intellettuali nipponici, alla soglia degli 82 anni e nonostante i problemi di salute non smette di aggiornarsi sul Sol Levante.
“Un tempo l’ambasciata mandava più notiziari e potevo informarmi più dettagliatamente – commenta Bigatti – Oggi sono in contatto con alcuni amici giapponesi, che del resto affrontano questa sciagura come qualsiasi altro evento calamitoso del passato. Può sembrare strano, considerata la dimensione della tragedia. Ma è la reazione tipica del carattere orientale: quella che noi chiamiamo rassegnazione per loro è forza d’animo”.
“Nessuna lamentela, nessun atteggiamento dimesso, ma la coscienza di essere esposti ai moti tellurici e la voglia di andare avanti – prosegue – Tutto parte da un’idea fondamentale insita nell’animo giapponese, che per noi è estranea: l’ultima parola spetta all’uomo, anche contro gli assalti della natura, di qui il coraggio nell’affrontare eventi terribili come il maremoto o il terremoto”.
Il bilancio in termini di vite è ancora in corso di definizione in questi giorni concitati: fra morti accertati e dispersi la polizia parla di almeno 5 mila vittime, ma il numero è destinato a salire vertiginosamente, probabilmente a raddoppiare. Nuove esplosioni si sono registrate alla centrale nucleare di Fukushima: oggi due deflagrazioni sono avvenute pochi minuti dopo una nuova scossa di assestamento di magnitudo 6,2 gradi della scala Richter.
Il professor Bigatti esemplifica così l’attitudine del popolo nipponico: “Ho chiesto ad un’amica giapponese come potesse convivere con l’eventualità di un sisma grave, magari tenendo in casa le tradizionali lampade di carta che, alla minima scossa, potrebbero cadere e incendiare l’abitazione. ‘Si ricomincia, si parte da zero’ mi ha risposto, con un tono assolutamente non rassegnato, ma fermo e sicuro, senza malinconia. Questo ci dice molto sulla cultura e sulla psicologia giapponese, che non possiamo interpretare in base ai nostri schemi mentali. In realtà, ancora oggi non riusciamo a conoscere e interiorizzare pienamente la loro cultura, nonostante il progresso tecnologico della comunicazione”.
“Le strutture in Giappone sono da sempre costruite secondo i più avanzati criteri anti-sismici” sottolinea il decano degli orientalisti locali, ribadendo quanto viene amplificato dai media che seguono il disastro. “Per vent’anni ho frequentato il consolato giapponese a Milano e si parlava continuamente del rischio di terremoti e tsunami, è un discorso all’ordine del giorno per i giapponesi. Questo argomento lo affrontano, però, in modo virile, senza autocommiserazione. Anche in questi giorni che sono stati funestati dalla più grave tragedia dal dopoguerra”.
“Savona Tōyōgakkō” è il nome del centro orientalistico savonese che si trova in via Untoria, un piccolo patrimonio culturale scarsamente valorizzato. Per Franco Bigatti il cruccio è di non aver potuto partecipare alla celebrazione del Genetliaco dell’Imperatore, al consolato generale di Milano, come tradizionalmente ha sempre fatto, unico ligure invitato alla cerimonia direttamente dal Ministero dell’Esteri nipponico. Avrebbe in quel modo testimoniato ancora una volta la sua presenza attiva negli studi yamatologici. “Spero che la salute non mi impedisca anche di seguire il mio Centro di Studi Orientali, che da tempo non riceve attenzione dalle istituzioni, nonostante il valore che ha nel Savonese e in Liguria per la conoscenza e la diffusione della cultura dell’estremo oriente” conclude Bigatti.

Gheddafi minaccia l' Italia

Saif Gheddafi Saif al Gheddafi, figlio del leader libico, ribadisce in un'intervista la sua fiducia nella vittoria finale e attacca apertamente l'Italia, che a suo avviso ha "tradito" l'amicizia con la Libia. Parlando nella notte tra giovedì e venerdì alla stampa italiana Saif ha iniziato il discorso dall'"irritazione" nei confronti dell'Italia. "Siamo - dice - rimasti molto irritati (unhappy in inglese, ndr): siete il primo partner della Libia al mondo, il numero uno nel gas, nel petrolio, nel commercio. Abbiamo visto l'Italia rimanere in silenzio di fronte a questi terroristi che hanno ucciso i nostri poliziotti a sangue freddo, che hanno strappato il cuore dai cadaveri, li hanno bruciati, hanno calpestato il loro cuore con gli stivali. Avete visto il video con queste scene? Chiedo a voi italiani: fatemi vedere le tracce dei bombardamenti aerei! Dove sono i mercenari? Questo è il momento per i veri amici, adesso l'Italia deve cambiare la sua posizione, capire che quello che hanno sentito due settimane fa è falso.
Il messaggio per l'Italia è questo: il popolo libico è unito, presto vinceremo la battaglia contro questi terroristi, Inch'allah, e presto faremo i conti con tutti. Sarà molto facile rimpiazzare l'Italia con la Cina o la Russia. La Cina ce lo chiede, vogliono essere al posto dell'Italia come primo partner, state attenti".
" Berlusconi - ha aggiunto Saif riferendo anche la posizione del padre - è nostro amico, siamo vicini, siamo amici. Potevamo aspettarci questo dalla Francia, dalla Gran Bretagna, dalla Svezia: non dall'Italia. I cinesi ci appoggiano, come i brasiliani, gli indiani, i russi, il Sudafrica: ma dove sono finiti gli italiani? Abbiamo un futuro comune. Se noi perdiamo la battaglia qui, voi sarete i prossimi. Se noi vinciamo, voi sarete salvi".
E nel finale dell'intervista l'"irritazione" diventa minaccia: la "Libia - dice - è una linea del fronte per l'Italia. Quello che succede oggi qui da noi determinerà quello che succederà domani da voi. Per cui: state attenti!"

Bengasi sotto assedio

Gheddafi bombarda la capitale della Resistenza. Dove intanto però ci si prepara a costruire il nuovo Stato. Il reportage della nostra inviata
(03 marzo 2011)
L effige di Muammar Gheddafi viene bruciata durante una manifestazione a Tripoli L'effige di Muammar Gheddafi viene bruciata durante una manifestazione a TripoliA Bengasi non si lavora solo per cacciare il tiranno ma si sta anche creando il nuovo volto della Libia. Nei corridoi e nelle aule della palazzina del tribunale i "topi" e gli "scarafaggi", come li ha chiamati Muammar Gheddafi, stanno provando a trasformarsi in cittadini. Per farlo dovranno liberare anche Tripoli, decidere che tipo di Repubblica diventare, redigere una Costituzione condivisa dalla maggioranza dei sei milioni di cittadini e stabilire le qualità morali e professionali che i nuovi leader dovranno possedere per essere scelti con libere elezioni. Nel farlo sarà imperativo riuscire a superare le divergenze tra clan e grandi famiglie che costituiscono l'unico tessuto sociale relativamente stabile in un territorio sottoposto da secoli alla dominazione di stranieri o tiranni. Se dovessero fallire, il rischio è la lacerazione del territorio in mini califfati nei cui interstizi potrebbero trovare rifugio gli estremisti islamici.

Per il momento entusiasmo e dedizione verso il "progetto-nazione" non mancano. "Non ho mai sperato né sognato di trovarmi in questa posizione", spiega seduto su una panca di un'aula del tribunale, occhi chiari su barba bianca ben curata, Sal El Ghazal, il capo dei 14 uomini che formano il Consiglio cittadino di Bengasi, il nucleo di potere che ha preso in mano la gestione della città e sta aiutando anche nel coordinamento dei consigli degli altri centri liberati: "Ho settant'anni e mi comporto come se ne avessi trenta. La mia vita è cominciata daccapo". Mentre parla un giovane vestito in abiti tradizionali, la shanna, il cappello di lana rossa, calcata in testa e la barba nera a toccargli il petto, si avvicina e chiede udienza. � stato inviato dallo sceicco del clan Al-Awagir a offrire sostegno al consiglio di Bengasi.

In cambio non chiede una quota del potere ed El Ghazal, ex militare spedito per anni in carcere e più tardi diventato un piccolo costruttore edile, sorride. "Non bisogna mai smettere di sperare", aggiunge. A tradurre le sue parole ha chiamato Essam Gheriani, un manager libico che per due decenni ha vissuto negli Stati Uniti e adesso è il portavoce del nuovo governo per la stampa estera. La moglie di Gheriani, Salwa Bougaigis, che ha studiato anche lei in Inghilterra e negli Stati Uniti e non porta l'hijab, è un avvocato divenuto membro del Consiglio rivoluzionario. La sorella di Salwa, Imam, di professione faceva invece l'ortodontista ma ora confessa che il suo sogno è la politica. "Voglio partecipare alla ricostruzione del Paese", spiega mentre le brillano gli occhi sotto un caschetto di capelli sale e pepe. Ed è proprio in questo incontro di saggezza antica e urgenze moderne, di elementi occidentali e arabi, di leggi ataviche e imperativi imposti dalla globalizzazione, la chiave per trovare i personaggi e le conoscenze che permetteranno di costruire la nuova Libia, partendo da zero o poco più

domenica 13 marzo 2011

Ultimo Reparto d' onore e fedeltà la 33 DIVISIONE SS CHARLEMAGNE

Processo di transizione


Tutto pronto, almeno sulla carta per l'inizio del processo di «transizione» che vedrà il passaggio delle responsabilità di sicurezza in un buon numero di distretti afghano dalle forze alleate a quelle afghane. L'annuncio delle aree assegnate in esclusiva alle forze locali è atteso dal presidente afghano Hamid Karzai il 21 marzo e il programma dovrebbe coinvolgere entro l'anno circa il 25 per cento dei distretti (simili ai nostri comuni, generalmente con meno abitanti e maggiore estensione territoriale) In luglio gli afghani assumeranno il controllo pieno di quattro province (probabilmente Mazar-i-Sharif, Bamyian, Panshir ed Herat) e di tre grandi città (secondo indiscrezioni Herat nell'ovest, Mazar-i-Sharif a nord e Laskargah nel sud) ma già da marzo alcuni distretti della regione occidentale posta sotto il comando militare italiano verranno ceduti alle forze locali.
«Noi abbiamo già un elenco dei distretti che verranno riconsegnati agli afgani: è giusto che li annunci il presidente Karzai, ma devo dire che è esattamente in linea con le nostre attese», ha detto al vertice Nato di Bruxelles il ministro della Difesa, Ignazio La Russa. Il processo di transizione comincia ora e si svilupperà fino al 2014 ma, come tengono a precisare molte fonti, non significa ritiro delle truppe alleate. «Abbiamo detto al segretario generale della Nato e agli americani che concordiamo sul fatto che non si può' immaginare che ci sia una sorta di rompete le righe con la fase di transizione», ha aggiunto La Russa. «Questa non è una fase di chiusura ma si tratta solo di riconsegnare agli afgani parte del territorio e di reimpiegare le truppe che si liberano nel modo migliore per accorciare ulteriormente i tempi del definitivo passaggio di consegne. L'intendimento dell'Italia è candidarci sempre più a fare gli istruttori e far rimanere le truppe non più necessarie in alcune zone in altre dell'area sotto comando italiano».
Affermazione che sembrerebbe indicare la volontà di concentrare alcune compagnie di fanteria delcontingente italiano non più necessarie nella zona di Herat a rinforzo delle aree più calde come Bala Murghab (nord) e Bakwa/Gulistan (sud est). Il segretario generale dell'Alleanza Atlantica, Anders Fogh Rasmussen, ha espresso «fiducia sulle capacità» delle forze afghane che sono «in continua crescita», tanto che esse «combattono spalla a spalla» con i reparti della Nato ed anzi «in molte operazioni rappresentano oltre la metà» degli effettivi impiegati. Esse «ora sono pronte per assumere gradualmente la responsabilità della sicurezza della loro nazione e della loro popolazione». Un'analisi forse un po' troppo ottimistica se si considera che i report degli ufficiali alleati sui campi di battaglia esprimono molte riserve su addestramento e determinazione delle forze afghane.
Rasmussen ha comunque precisato che «non lasceremo, al contrario resteremo per sostenere e addestrare gli afghani« anche se molti Paesi europei quali Francia, Spagna e Germania hanno già da mesi annunciato una riduzione di rilievo dei propri contingenti già dal 2012. Forse anche per questo il segretario alla Difesa statunitense, Robert Gates ha ironicamente commentato che «si parta troppo di ritiri e troppo poco di come finire il lavoro nel modo giusto» mettendo in guardia contro la tentazione dei diversi governi di fare piani «non coordinati», soprattutto ora che il comando alleato guidato dal generale David Petraeus si attende «combattimenti più duri e pesanti».
«Ritiri nazionali non coordinati - ha insistito Gates - metterebbero a rischio i passi avanti fatti finora. Qualsiasi considerazione sul ritiro di forze deve essere guidata dalle condizioni di sicurezza sul campo, non da calcoli matematici fatti sulla base di preoccupazioni politiche». Gates non ha risparmiato critiche ai governi europei. «Purtroppo alcune recenti dichiarazioni retoriche, comprese quelle venute da alcune capitali di questo continente, mettono in dubbio la volontà di arrivare ad una soluzione».
Dubbi emergono anche sulla solidità dei rapporti tra Karzai e gli alleati. Il presidente afghano non esita a cogliere ogni occasione buona per attaccare la gestione militare delle operazioni e nel corso di un discorso nella provincia orientale di Kunar, dove la forza internazionale dell'Isaf è accusata di aver ucciso di recente decine di civili, ha chiesto alla Nato di cessare le sue operazioni militari nel paese. «Voglio chiedere alla Nato e agli Stati Uniti, con onore e umiltà, e senza arroganza, di cessare completamente le operazioni nel nostro paese", ha detto il presidente afghano nel corso di un incontro con 500 capi tribù di tutti i distretti della provincia. «Se si tratta di una guerra contro il terrorismo internazionale la devono condurre nelle regioni che noi indichiamo da nove anni e che loro conoscono", ha aggiunto Karzai riferendosi alla Tribal Area pakistana.
In realtà il rapporto annuale della Missione delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama) e della Commissione indipendente afghana per i diritti umani rileva che nel 2010 le vittime civili del conflitto sono salite a 2.777 con un incremento del 15 per cento rispetto al 2009. Gli insorti sono però responsabili della morte di 2.080 persone, il 75 per cento del totale e il 28 per cento in più rispetto allo scorso anno, mentre le forze governative e alleate vengono considerate responsabili della morte di 440 civili, il 16 per cento del totale, con un calo del 26 per cento rispetto al 2009. Il presidente afghano non ne parla mai ma anche le sue truppe uccidono per errore i civili, non solo gli alleati. Le truppe internazionali hanno registrato 82 caduti dall'inizio dell'anno (53 statunitensi, 11 britannici e 18 alleati tra i quali due italiani), un netto miglioramento rispetto ai dati rilevati il 12 marzo 2010 quando i caduti alleati dal primo gennaio furono 122 mentre nei primi 3 mesi del 2009 erano stati 77.